Un porto di luci

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L’avevo già scelto. L’avevo fatto ancora prima che qualcuno mi avesse chiesto qualcosa al riguardo. Ancora prima dell’alba, prima di aver domandato cortesemente l’accendino ad un perfetto estraneo. Metà sigaretta e ancora si spegne perché mi distrae il mare, mi distrae il cielo, mi distraggono le luci, mi distrae la sua mano. Fuochi d’artificio caduti in acqua, di forme geometriche che modificano i pensieri più semplici, quell’indecisione tra il grigio e il blu e poi sfumarli insieme. I morsi delle onde, gli attriti che ti fanno uscire il sangue, il piercing alla lingua. I colori caldi che invadono l’iride e quel verde che sembra meno freddo. Lo sguardo perso, perso tra gli asteroidi. L’ho perso quel giorno guardando la via lattea, poi l’inquinamento luminoso e penso sia bello pure quello. “Mi ridai l’accendino?” “Oh, sì, certo.”
Astemi che fanno la predica barcollando, le incisioni sulle mattonelle, i cerchi nell’aria tra il fumo e le nuvole. I blackout a comando, stimolare le papille gustative, stimolare altro, gustare altro, farlo ancora. Il balcone e starci nudi altrimenti andare a letto. Certo era inutile immaginare, eravamo imprevedibili nel proprio modo di fare del male. Avevo scelto quel posto ancora prima di inspirare il suo ossigeno e calpestare il suolo o toccare il sale del mare poi leccarmi le dita. L’avevo già scelto.
“Scusa, hai d’accendere?” “Ancora tu?!”

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